PAROLE PRIME


Roberto Borghi


Per la maggior parte degli artisti che vi partecipano, Abecedario costituisce la prima volta: la prima rilevante mostra, la prima opportunità per far vedere “alla grande” i propri lavori, la prima esperienza con una galleria… Insomma, una bella occasione che merita di essere festeggiata con un breve preambolo sulla primavoltità. Coniata da Bobi Bazlen, il fondatore della casa editrice Adelphi, questa parola può essere spesa, tra l’altro, per le opere prime nelle quali è presente qualcosa di sorgivo, una tensione espressiva che ha un carattere di unicità e di eccezionalità, e un surplus di entusiasmo e di sostanziale disinteresse, se non proprio di purezza, tipico dei debutti felici. Gli scrittori e gli artisti agli esordi avranno poi tutto il tempo per diventare degli impiegati del sistema dell’intrattenimento globale, se lo vorranno; intanto però le loro prime opere, le loro prime pubblicazioni ed esposizioni, una traccia significativa nel mondo l’avranno comunque lasciata. “Un’invenzione fosse anche minuscola, un gesto rapido, solo per il fatto di apparire per la prima volta – ha scritto Roberto Calasso a proposito di primavoltità – acquistano un altro senso, e la trascurabile aggiunta al mondo ne muove l’ordine”.

Abecedario è un titolo che rimanda a un’idea di basilarità, alla consapevolezza di essere all’inizio di un percorso, all’esigenza di imparare costantemente ad articolare il proprio linguaggio creativo: fattori comuni agli artisti in mostra, la cui poetica può essere compendiata in una serie di parole prime, di termini sostanziali, scanditi in un rigoroso ordine alfabetico.     

A come anima nel caso di Fabiola Porchi. Anima e animale sono parole vistosamente correlate: nonostante ciò la condizione animale, per come è normata dall’uomo, si fonda sulla negazione di qualsiasi identità animica. Nelle opere di Fabiola viene messa a nudo la violenza di questa negazione, la privazione di dignità riservata non solo ai corpi mutilati degli animali, ma anche alle loro spoglie. 

      

D come debordante per Filippo Moroni. Il debordare presuppone l’esistenza di un bordo, di un limite non tanto da infrangere, semmai da valorizzare con un accenno di oltrepassamento che ne sottolinea l’esistenza. C’è poi lo stare a bordo, il desiderio di navigare all’interno di una materia a sua volta percepita come un fiume straripante.   

E come eden per Matteo Baracco. L’eden ovvero, in chiave etimologica, la delizia primordiale che l’uomo sperimenta quando è pienamente immerso nella natura e, per esteso, la pienezza della natura. La pittura di Matteo può dirsi edenica nella misura in cui coltiva l’utopia di una natura ripristinata nella sua pienezza, nella sua integrità originaria, e allo stesso tempo comunica efficacemente il piacere di dipingere. 

 

L come legame per Giulia Nelli. Legame inteso anzitutto come sostanza legante, come materia trattata in modo tale da evidenziarne la capacità di connessione degli spazi; come sinonimo di relazione, di rapporto inevitabilmente teso, friabile, lacerabile tra persone; come collegamento, interdipendenza tra uomo e natura, correlazione tra microcosmo e macrocosmo.      


O come ordinario per Marcello Maranzan, ma nel senso letterale, trascurato, dimenticato del termine. Scambiata per mero sinonimo di routine, l’ordinarietà è invece la capacità di individuare un ordine inatteso nelle cose di tutti i giorni, l’assetto di fondo in un insieme di frammenti, la struttura ritmica di una composizione apparentemente casuale di immagini.   


S come suggestivo per Alberto Messina. Suggestivo come derivato di suggerire, cioè esprimere in modo allusivo, comunicare con modalità scevre di pretese esaustive, semmai attente a lasciare intatto il mistero del reale. Suggerire in chiave etimologica, come sub gerere, portare in basso, condurre in profondità il discorso creativo.    


U come uno per Martina Franchini. O forse non semplicemente uno ma l’Uno, il principio primo neoplatonico, la radice unitaria della complessità del molteplice. Ma anche la monocromia di ascendenza malevičiana, il monolite sospeso di 2001: Odissea nello spazio, l’energia che rapprende e compatta i molti in un’unica e vibrante conformazione.   

V come vuoto per Han Tao. Un vuoto però tutt’altro che statico, un vuoto da attraversare più che da contemplare, una vacuità performativa: più che il vuoto in sé, conta il fare il vuoto, il gesto che lo evoca, il processo in cui si inscrive.